LinkedIn sta peggiorando? Sì, in maniera davvero evidente
Ti spieghiamo perché è diventato così strano – e forse un po’ inquietante
Negli ultimi anni, LinkedIn ha subito una trasformazione silenziosa ma radicale. Quella che era nata come una piattaforma fredda e funzionale, dedicata a CV, annunci di lavoro e connessioni professionali, oggi si presenta come un ibrido bizzarro tra diario personale, vetrina di autocelebrazione e motivational cult. In questo nuovo paesaggio digitale, le persone sembrano costrette a costruire una versione di sé che non ha nulla a che vedere con la loro reale esperienza, ma tutto a che fare con un immaginario collettivo tossico sul successo.

LinkedIn oggi
Chiunque lo apra si ritroverà immerso in un linguaggio ripetitivo, quasi caricaturale tra soluzioni integrate, mindset resiliente, ma dietro la retorica da business coach si cela qualcosa di più profondo.
Si tratta di una narrazione compulsiva della propria vita come se fosse un pitch da vendere e il tono è spesso lo stesso: storie di cadute rovinose e rinascite eroiche, condite da citazioni ispirazionali, frasi fatte e fotografie in cui si piange – letteralmente – per “essere veri”.
C’è un culto dell’autenticità che ha perso ogni autenticità. La vulnerabilità, anziché essere condivisa come segno di umanità, viene monetizzata come leva per l’engagement: è l’era dell’“employer branding personale”, dove non si lavora più per vivere, ma si vive per rappresentare il proprio lavoro – anche a costo di svuotare la propria esperienza di significato e il problema non è solo il tono stucchevole di certi contenuti. È il fatto che questa estetica – questa performance costante – stia condizionando profondamente la percezione di sé e del proprio valore professionale.
Persone con percorsi non lineari, ricchi di esperienze diverse, si ritrovano a sentirsi fuori posto.
La loro complessità viene vissuta come un difetto, un’incompatibilità con la griglia rigida di LinkedIn: chi ha dedicato tempo al lavoro creativo, allo studio o ha cambiato direzione più volte nella vita, fatica a rientrare nei template da “high performer”.
Una delle manifestazioni più disturbanti di questo fenomeno è la normalizzazione di forme di mascolinità tossica e atteggiamenti antifemministi all’interno della piattaforma.
Alcuni utenti – spesso uomini in posizione di potere – utilizzano LinkedIn per veicolare messaggi paternalistici, autocelebrativi e talvolta apertamente sessisti: non mancano i casi in cui donne professioniste ricevono commenti inappropriati sulle loro foto profilo o vengono invitate a “colloqui informali” mascherati da opportunità di networking. La vicenda che coinvolse una giovane avvocata britannica, finita nel mirino dei media per aver reso pubblico un messaggio sessista ricevuto su LinkedIn, ne è solo uno dei tanti esempi: la sua denuncia, invece di essere accolta con solidarietà, ha scatenato un’ondata di insulti misogini e accuse di essere “troppo sensibile” o “in cerca di visibilità”.

LinkdedIn amplificatore dello scenario odierno
Questo dimostra che, pur essendo LinkedIn uno spazio pensato per la professionalità, riflette – e talvolta amplifica – le dinamiche di potere già presenti nel mondo del lavoro e la performance professionale si intreccia con l’estetica della virilità: come ’imprenditore che “non si è mai arreso”, anche se magari ha ereditato l’azienda dal padre…è un ambiente che premia la sovraesposizione, la retorica del sacrificio e una visione del successo modellata sull’individualismo più competitivo.
Eppure, ci sarebbe tanto spazio per una narrazione diversa. Una che riconosca che il lavoro non è l’unico criterio per definire il valore di una persona, che esistono competenze invisibili, maturate nella cura senza essere spettacolarizzate; che il “networking” non deve essere per forza una forma di self-marketing sfrenato, ma anche una pratica di ascolto e scambio.
Non si tratta di demonizzare chi condivide il proprio percorso con entusiasmo o chi cerca di emergere in un mercato del lavoro sempre più competitivo. Ma forse bisognerebbe interrogarsi sul fatto che, per molti, stare su LinkedIn sia un esercizio di ansia, un dovere più che una scelta e alcune persone provano disagio nel dover raccontare la propria vita secondo criteri che non sentono propri.
Perché dovrebbero ridurre la maternità, il lutto, la malattia, il cambiamento, a una timeline di titoli acchiappa like?
Ciò che rende LinkedIn strano non è tanto la sua evoluzione verso un social network, quanto il fatto che, in questa trasformazione, abbia ereditato il peggio di altre piattaforme.
L’egocentrismo di Instagram, l’ansia performativa di X, la superficialità virale di TikTok, ma senza mai smettere di chiedere, in modo quasi subdolo: “E tu, cosa stai vendendo oggi?”.

Forse è il momento di recuperare una certa sobrietà.
Non per tornare a un formalismo rigido, ma per dare spazio a una narrazione più umana, meno ossessionata dalle performance e più capace di raccontare il lavoro per quello che è: una parte importante, ma non totalizzante, della vita.

Chat GPT
Immagini generate da Chat GPT nello stile del pittore e illustratore Edward Hopper