La lezione umana di Drew Struzan nell’era dell’intelligenza artificiale
Con la sua scomparsa, non perdiamo solo un artista, ma un intero linguaggio visivo
Ci sono immagini che non si dimenticano. Alzi la mano chi, chiudendo gli occhi, non ricorda il volto sui poster di Indiana Jones, o quello di Marty McFly che si aggiusta gli occhiali davanti alla DeLorean in fiamme. Queste locandine non sono semplici pubblicità ma soglie verso un mondo più grande e, dietro quelle soglie, c’è la mano di un solo uomo. Drew Struzan.
Con la sua scomparsa, non perdiamo solo un artista, ma un intero linguaggio visivo, un modo di intendere il cinema, Struzan non si limitava a “illustrare” un film: ogni suo tratto era un atto d’amore verso la narrazione, verso degli sguardi e gesti che la macchina fotografica poteva solo catturare, ma che lui sapeva trasfigurare. Negli anni Settanta e Ottanta, quando i poster erano finestre e non file digitali, Drew costruiva sogni: da Blade Runner a Star Wars, da E.T. a The Thing, da I Goonies a Ritorno al Futuro — ogni sua opera diventava un’icona, qualcosa che restava incollato alla memoria collettiva.

L’era digitale ha reso tutto più veloce, più levigato, più “funzionale”
In un’intervista del 2010 Photoshop aveva sostituito matite e pennelli; un clic che correggeva, modificava, cancellava e si sottolineava come in quei clic processuali si era perso il respiro umano. Drew stesso diceva: “Non mi dispiace il computer come strumento, ma è un peccato che abbia cambiato la percezione del mondo e dell’arte. C’è una mancanza di quel tocco umano artigianale che ispira, motiva, trascende la pagina”.
E aveva ragione. Quello che si è perso non è solo un mestiere: è la capacità di vedere l’umanità dentro le immagini.
Struzan raccontava poi con ironia e modestia l’episodio del poster de La Cosa: lo chiamarono la sera prima, chiedendogli un’immagine per il giorno dopo. Senza fotografie di riferimento, basandosi solo su un ricordo vago della prima trasposizione su schermo del racconto di Campbell, dipinse tutta la notte e consegnò il lavoro la mattina seguente. Quel poster, creato in meno di ventiquattro ore è oggi uno dei più amati della storia del cinema.
Non servivano algoritmi o filtri: bastavano l’occhio, la mano e la fede nell’immaginazione di un uomo, certo non comune. Drew ha attraversato cinque decenni di cinema, finché non è stato costretto al silenzio da un’industria che aveva smesso di capire l’arte; quando i dirigenti cominciarono a chiedergli “piccole modifiche” come se si trattasse di file digitali, lui capì che il suo tempo era finito; Photoshop era il nuovo imprescindibile, era più economico, più rapido, più prevedibile: ma ciò che è economico e rapido raramente è vivo.
Quando guardiamo i Muppet sulle sue locandine, non vediamo pupazzi, ma occhi che pensano.
Quando guardiamo Harrison Ford nei suoi poster, non vediamo una fotografia, ma il personaggio stesso che respira davanti a noi.
Struzan aveva la capacità di animare l’inanimato e nessuna intelligenza artificiale, per quanto sofisticata, potrà mai generare quella vibrazione invisibile, perché quest’ultima non nasce da un’esperienza, ma da un algoritmo. Certo, puoi chiedere a un’AI di produrre un’immagine “nello stile di Drew Struzan”, ma la differenza si vede subito: gli occhi non vivono, la luce non ha calore, forse perché la macchina non conosce la meraviglia…Struzan non era solo un illustratore, ma un mediatore fra il mondo reale e quello immaginario e il suo talento non stava nel copiare la realtà, ma nel tradurre le emozioni.

Passare una vita intera a sbagliare e imparare dai propri errori
Ma è proprio lì che nasceva la sua grandezza; Struzan non cancellava le imperfezioni: le usava. Le piegava alla sua visione, traendone tecniche nuove, scoperte, deviazioni felici…un processo che nessuna intelligenza artificiale potrà mai replicare.
Un algoritmo non sbaglia: fallisce solo quando devia dal percorso previsto, ma la vera arte nasce esattamente lì — dove qualcosa va storto, dove un gesto diventa improvvisamente più sincero di quanto volessimo. È quell’imprevisto, quell’errore umano che apre le porte dell’invenzione.
Noi, al contrario, sembriamo voler vivere in un mondo che non contempla più la deviazione. Un mondo in cui la perfezione è automatizzata, la creatività è preconfezionata e il rischio — quella linfa che alimenta ogni artista — viene eliminato dal processo. Se ci lasciamo sedurre dall’accessibilità e dalla velocità dell’intelligenza artificiale generativa, smettiamo di crescere, restiamo fermi all’ultima versione del software, incapaci di oltrepassare la soglia di ciò che è già stato previsto.
Gli “incidenti felici” diventano “bug da correggere”.
La scoperta diventa un errore di calcolo.
Drew era un uomo, viveva e la vita è fatta di imprevisti ed è per questo che le sue opere trasmettono pulsione: perché nascono da una vita vissuta. Non da un set di dati, ma da esperienze, ferite, emozioni reali e la differenza sta tutta lì: un algoritmo non conosce la fame, la perdita, l’attesa. Non conosce la nostalgia, né la speranza. E dunque non può restituirle.
Drew Struzan se n’è andato lo scorso 13 ottobre 2025, portato via dall’Alzheimer, una malattia che cancella i ricordi ed è crudele pensare che proprio lui, che aveva impresso la memoria visiva di intere generazioni, abbia perso la propria.
E allora, la domanda vera non è se l’intelligenza artificiale potrà mai sostituire Drew Struzan. La domanda è: che cosa dice di noi se smettiamo di cercare artisti come lui?
Se accettiamo un mondo dove il “sufficiente” prodotto da un algoritmo vale più del “meraviglioso” creato da una mano viva, stiamo barattando la nostra immaginazione con la comodità.

Drew Struzan
Le immagini presenti nel post sono le illustrazioni create dall’artista Drew Struzan.