Nel bene o nel male purché se ne parli. No, non ne vale sempre la pena
Qualche suggerimento per un’etica della buona comunicazione online
Spesso ci piace partire dai casi di cronaca per cercare di capire meglio le cose, per decostruire e analizzare la comunicazione online e magari trarne qualche insegnamento, ed è così anche stavolta. I casi però ora sono due, completamente diversi fra loro ma uniti da un filo comune: la buona e cattiva comunicazione online. Si tratta del caso di Chiara Ferragni e il caso della (probabile) falsa recensione di una pizzeria della provincia di Lodi (non mettiamo volutamente link al fatto di cronaca, perché quello che è successo dopo il fatto è talmente grave da meritare trattazione in sedi più opportune della nostra).

Nel bene o nel male purché se ne parli
Con una citazione di solito attribuita a Oscar Wilde, si dice “nel bene o nel male purché se ne parli”, intendendo che non importa il tipo di voci e di argomenti che girano su una persona o su un brand, la cosa importante è che ci siano queste voci, così da rimanere rilevanti. È una citazione che alcuni paiono aver preso come faro della loro comunicazione, dando l’impressione di essere disposti a tutto pur di rimanere nel circuito di quelli che contano. Ma ne vale sempre la pena?
Vediamo il caso di Ferragni: l’influencer ha basato parte della sua strategia comunicativa sulla bontà. Donazioni benefiche agli ospedali, uscite femministe (“pensati libera” sul vestito indossato a Sanremo 2023), pandori e bambole per raccogliere fondi in favore di bambini malati. Tutte cose che fanno sentire bene il suo pubblico, lo fanno sentire fiero di far parte di una community creata da un persona tanto bella, buona e brava. Ma quando il meccanismo si inceppa? Quando il giocattolino si rompe?
Ferragni è stata indagata per truffa, pare che le raccolte benefiche dei pandori non fossero poi così benefiche, e che siano stati truffati i clienti facendo credere loro che parte dei soldi spesi per i pandori andassero in beneficenza, cosa in realtà non vera. E lei non solo ha prestato il suo volto per la campagna, ma pare fosse a conoscenza di tutto. Come reagisce l’influencer?
- Prima sparisce dai social,
- poi pubblica un video di scuse criticabile (parere professionale, questi video di scuse tutti uguali non hanno davvero più senso, vanno trovati altri metodi per scusarsi in modo efficace col pubblico),
- poi torna ma blocca i commenti.
Il pubblico come reagisce? Con un bel defollow. Ferragni ha visto una piccola emorragia di follower, di per sé non numeri eclatanti, ma non è il numero che conta, ma il tipo di follower! Chi si prende infatti la briga di togliere il follow da un creator, brand o influencer che segue? Di norma il pubblico caldo, quello che segue assiduamente, che crede nel brand e compra, l’unico vero pubblico che deve interessare, perché è quello che, detto in soldoni, converte, fa fatturare.
Ed è saltato fuori un altro aspetto, restando in tema follower: pare che Ferragni ne abbia circa 11 milioni di finti, acquistati (per gli addetti al settore niente di nuovo sotto il sole). Non sono questi i follower che si perdono, per il semplice fatto che non esistono, ma sono una bomba ad orologeria: purtroppo molte aziende si fermano davanti al numero nella scelta delle collaborazioni, ed avere più follower aiuta, ma, essendo finti, non convertiranno, e il palloncino prima o poi esplode, facendo sentire presi in giro i follower reali.
Nel bene, i nostri suggerimenti
Iniziamo col dire che far parlare bene di sé, secondo noi, è l’unica strategia eticamente corretta, vediamo cosa fare perché accada.
- Non si può forzare il parlar bene: devono essere i fatti, la qualità dei nostri prodotti, il rispetto dei nostri competitor, a far parlare bene di noi.
- La beneficenza va bene, ma deve essere ragionata. Non si fa solo per il ritorno di immagine, non si fa a caso. E soprattutto, non si truffa, al minimo segnale di cose strane si lascia perdere.
- Diamo il buon esempio e facciamo in modo di essere i primi a parlar bene: rispettiamo i competitor, parliamo bene dei fornitori, ringraziamo i clienti.
Non è sicuramente tutto il possibile, ma è un buon inizio.

Le recensioni, nel bene o nel male
Veniamo al secondo punto: una recensione che ha fatto parlare di sé. E già cominciamo male, perché le recensioni non possono e non devono diventare casi di cronaca, per il semplice fatto che non sono notizie, sono solo commenti.
Questa brutta abitudine di far assurgere le recensioni online a casi di cronaca sta prendendo una piega che ci piace pochissimo: si scrivono (o si inventano) recensioni per far parlare di sé il più possibile, anche e soprattutto nel male, perché fanno tanto rumore.
Il mondo delle recensioni è molto vario, e sono diverse le piattaforme che si occupano solo di quello: Tripadvisor e Trustpilot, per citarne solo due. Anche Google ha una sua sezione dedicata alle recensioni, ed è molto potente: è proprio lì, in bella vista in prima pagina ogni volta che si fa una ricerca su un locale, un ristorante, un albergo.
Le recensioni servono? Sì, se usate con criterio: possono essere un prezioso feedback per l‘azienda, e un’indicazione molto utile per un potenziale cliente. Questa seconda funzione ha fatto nascere un mercato sommerso di compra vendita di recensioni: l’idea è che più ce ne siano di positive, più il locale potrà avere clienti, fino ad arrivare alla compravendita di recensioni negative per danneggiare un concorrente. Sull’onda della popolarità delle recensioni sono nate pagine Facebook che raccolgono le più divertenti, le più strane, rendendole a volte così popolari da essere virali. E qui scatta l’idea di alcuni ristoratori.
Cosa fare per ravvivare un locale un po’ stantio? Per riempire le sale? Una recensione che diventa virale può sembrare un’ottima strategia, magari le si dà una spintarella pagando un publiredazionale su un quotidiano locale, e il gioco è fatto. I quotidiani nazionali, spesso in cerca di notizie flash per riempire le pagine online di contenuti accattivanti, riportano le notizie senza verificarle, e boom, caso nazionale. Ne vale la pena? Secondo noi, assolutamente no.
Nel caso specifico erano state tirati in ballo membri della comunità LGBTQI+ e disabili: uno scandalo che ha fatto del ristorante il paladino dei diritti civili. A nostro parere la recensione era falsa, nel senso che era stato manipolato uno screenshot e che non era mai stata pubblicata. Specifichiamolo bene, chiaro e diretto: niente e nessuno merita una shitstorm in nessun caso. Non è etico, non è giusto, errare è umano e non siamo nessuno per giudicare le motivazioni personali che spingono a determinate scelte; la nostra analisi si ferma allo screen e alla recensione, non andremo oltre.
Ha senso un’operazione del genere? No, sia nel caso che sia una recensione vera sia, a maggior ragione, che sia falsa. Le recensioni non devono finire sui giornali, sono un’arma a doppio taglio. Le recensioni, per essere utili veramente al loro scopo, devono essere vere e spontanee, altrimenti creano un mercato dal quale non ci si riprende più: all’inizio magari saremo pieni di clienti, ma saranno fidelizzati se non trovano la qualità che si aspettano? E, ultima considerazione, mai tirare in ballo membri di comunità minoritarie: non sono mezzi per ottenere uno scopo, ma persone con sentimenti che non sono nate per farci passare per i buoni paladini, pensiamo invece a batterci con loro per le cose che contano davvero.
Nel male, i nostri suggerimenti
Cosa fare quindi con le recensioni? Come rispondere a quelle negative? Ecco qualche consiglio:
- Non manipolare le recensioni, non comprarle, non cercare di danneggiare la concorrenza. Se il nostro lavoro non parla per noi, bisogna porsi qualche domanda.
- Alle recensioni negative si risponde con grazia e educazione: se è il caso ci si scusa, si propone un’alternativa, non si offende. Se sono palesemente false si ignorano.
- Ripetiamolo insieme: le recensioni non sono notizie, far parlare male di noi non ci porterà nuovi clienti ma solo curiosi che non torneranno mai più.
Nel bene o nel male purché se ne parli
Il faro della nostra comunicazione è una forte etica: le buone pratiche della comunicazione online vanno sempre seguite, perché non possiamo pretendere un ambiente migliore se non siamo i primi a contribuire a crearlo. Anche i big ogni tanto dovrebbero fare un bagno di umiltà e ripensare a certi comportamenti e a certe scelte, perché sono un esempio per milioni di persone e anche, oseremmo dire soprattutto, per le nuove generazioni.
No, nel bene o nel male purché se ne parli non è un metodo accettabile, sia perché spesso sfocia in pratiche non etiche sia perché ha un effetto a lungo termine quasi mai positivo: non conviene, anche solo dal mero punto di vista economico, se proprio non vogliamo analizzarne anche le implicazioni sociali.

Maurizio Cattelan
Considerato fra i più importanti e controversi artisti italiani della sua generazione.